Quando si sente nominare la parola “vudù” (vaudou, voodoo, vodoun), un brivido d’inquietudine ci attraversa. Questa antica pratica religiosa è legata nell’immaginario collettivo occidentale allo stereotipo hollywoodiano della bambolina infilzata di spilli e di conseguenza associata ad una valenza negativa di “magia nera”.
Il viaggio in Benin a gennaio, con un’agenzia di turismo responsabile italo-maliana molto ben radicata in tutta l’Africa dell’Ovest, è stata l’occasione per scoprire che il vudù ha poco o niente a che fare con streghe e incantesimi, pentoloni che ribollono, o “sevizie” su piccole statuette alla ricerca del transfert sul corpo umano dei nostri nemici. Atterrati a Cotonou in tarda serata ci siamo riposati nelle accoglienti stanze di un piccolo alberghetto a gestione familiare e la mattina seguente, dopo aver sbrigato le commissioni necessarie, quali il cambio della moneta, l’acquisto di una scheda telefonica locale e di uno spazzolino da denti (per qualche compagno di viaggio smemorato), ci siamo diretti verso Possotomé, piccolo villaggio roccaforte del vudù sulle rive del lago Ahemé.
Un piccolo paradiso di tranquillità, dove la natura è venerata e rispettata, costituendo l’unica fonte di sostentamento. Ed è qui che abbiamo avuto il nostro primo approccio alla comprensione dei significati più profondi del vudù e il suo ruolo fondamentale nella protezione dell’ambiente e nell’ordine sociale delle comunità. Con una bellissima passeggiata attraverso la foresta sacra, disseminata di piccoli templi e divinità, fino ai villaggi tradizionali di Okomé e Sehomi, dove gli artigiani sono ancora “artigiani” e le donne si scambiano le merci col baratto, cominciamo a intuire che per proteggere questa preziosa oasi naturale, non servono né forestali nè polizia, ma basta la fede, il timore e il rispetto nelle divinità vudù che la abitano. Stesso principio vale per la protezione del lago e con un’escursione in piroga, tra suggestive leggende, intuiamo che il timore verso il potente e terrificante dio del lago, il rispetto verso la sua dimora al centro del lago, tiene lontani i pescatori e gli abitanti da quel determinato punto, facilitando cosi la riproduzione dei pesci all’interno dell’area “proibita”.
Ed è sempre il vudù a regolare l’ordine pubblico, oltre che il senso civico. Se qualcuno ruba, uccide, tradisce o manca di rispetto al prossimo, i sacerdoti intercedono con le divinità, affinchè sul colpevole, se non confessa spontaneamente, si abbattano le peggiori sciagure, come la cecità e la follia nel migliore dei casi, fino alla morte nel peggiore dei casi.
Se il nostro approccio al vudù a Possotomè è stato più intimo e a livello comunitario, a Ouidah il 10 gennaio, festività in Benin da quando nel 1996 é stata riconosciuta come religione ufficiale, le celebrazioni raggiungono il frastuono e le dimensioni di un evento annuo di livello nazionale, e ormai internazionale, sfiorando delle connotazioni quasi ‘folkloristiche’, ma altrettanto interessanti e sentite dalla popolazione. Un turbinio di danze e preghiere, di colori e rumori, di spiriti Zangbeto e Egun (i primi spiriti che vigilano la notte, i secondi spiriti dei “ritornati”, dei deportati nelle Americhe durante la schiavitù…entrambi identificati da noi impropriamente come maschere), capitando non di rado di assistere, girovagando tra la folla e gli altari, a vere e proprie esperienze di trance e rituali dalle tinte piuttosto forti (la maggior parte dei quali sono riservati solo agli iniziati e ai preti).
Il pomeriggio è stato invece un vero e proprio momento di raccoglimento che ci ha portato a ripercorrere con la memoria la triste storia della schiavitù ad opera dei coloni europei, con la complicità del sanguinoso Regno locale di Dahomey. Abbiamo ripercorso a piedi quella che oggi a Ouidah viene chiamata la “via degli schiavi”, ossia le tappe cui dovevano essere sottoposti gli schiavi prima di essere stipati a centinaia nella stiva di una nave in partenza per le Americhe: la piazza dove avvenivano le aste, l’albero dell’oblio attorno al quale gli schiavi in catene dovevano girare fino a perdere la propria identità, il monumento del pentimento, e infine la porta del “Non-Ritorno”, attraverso la quale gli schiavi venivano spinti fino alla riva e imbarcati per non fare mai più ritorno. La tappa successiva è stata la visita dell’incredibile cittadina “galleggiante” di Ganviè, non prima di esserci fermati a Grand Popo per dare il nostro piccolo contributo alla protezione della natura, con la liberazione nell’Oceano Atlantico di tante piccole tartarughine marine.
A Ganvié, un’intera città di palafitte, costruita su una laguna, abbiamo assistito a uno degli “spettacoli” più affascinanti del viaggio, un autentico mercato acquatico, fatto di centinaia di piccole piroghe.
Dopo di che abbiamo imboccato la via del nord, ma questa è un’altra storia, fatta di animismo e abitazioni tradizionali.
Tratto da “Repubblica Viaggi”
Foto di Paolo Latella