Il Ladakh mi accoglie con un cielo terso che sembra dipinto e una luce contrastata che scolpisce i luoghi, le case dai tetti piatti ricoperti di paglia,esaltandone i ruvidi contorni. Raggiungo questo Sahara d’alta quota in aereo e dopo un volo favoloso sul Nanga Parbat, il K2 e l’Indo si atterra a Leh, in una valle brulla tra montagne grigie e marrone.
Fuori l’aeroporto ci sono uomini e donne in costume Ladakho, con alti cappelli conici dorati e ampi copricapo neri tempestati di pietre dure. Tutti indossano grosse collane,mantelli di pelle di capra,di broccato,e con musica e canti danno il benvenuto a noi visitatori. Scena molto toccante. Leh, una piccola Kathmandu degli anni 80, è situata su di un verde altopiano formato dal fiume Indo a 3500 metri d’altezza. E’ una piccola città con strette vie che s’intersecano, e una strada principale che conduce al vecchio palazzo del Rajah del Ladakh. Il mercato è ancora al centro della vita del paese e non si vedono scene di povertà estrema. Quasi ogni casa espone le bandierine di preghiera buddista e quasi ad ogni angolo sono presenti chorten in pietra. Al centro di Leh c’è anche una moschea la cui architettura si interseca perfettamente con il paesaggio circostante. I bambini giocano in strada con barattoli vuoti e scarpe rotte e mi sorridono. I monasteri, abbarbicati sulle montagne, riposano con placida dignità e guardano altezzosi,con le loro molte finestre cieche,il soleggiato giorno d’estate. A Thiksey, a sud di Leh, la Puja del mattino, impregnata di fascino e misticismo, è molto animata. I monaci recitano, con voce sorda e gutturale, litanie al limite del lamento accompagnati dall’abile tocco dei musici che con lunghi corni tibetani, cimbali e tamburi infondono ritmi essenziali e in apparenza senza una melodia precisa. Al centro del cortile campeggia un’asta con preghierine che sventolano al vento.
I monaci recitano, con voce sorda e gutturale, litanie al limite del lamento accompagnati dall’abile tocco dei musici che con lunghi corni tibetani, cimbali e tamburi infondono ritmi essenziali e in apparenza senza una melodia precisa. Al centro del cortile campeggia un’asta con preghierine che sventolano al vento. La Puja del mattino è certamente meno “turistica” di Thiksey.
Le montagne innevate sullo sfondo da a questo luogo un’aspetto grandioso. In questa sorta di pellegrinaggio iconografico si arriva a Phyang, sede monacale di un ramo collaterale dei Kagiu-Pa, e del gompa di Likir, retto dal fratello del Dalai Lama. Entrambi i complessi monastici si ergono con solitaria e ascetica forza. Il mio viaggio continua lungo la strada che si avvicina di nuovo all’Indo. A Nimmu, l’Indus River incontra il fiume Zanskar, presso i cosiddetti “cancelli del Ladakh”, vera mecca degli amanti, come me, dei trekking. Qui l’Indo aumenta notevolmente la sua potenza.
Osservando dall’alto la confluenza si ha l’impressione che il fiume principale sia lo Zanskar. Il monastero di Ridzong “la fortezza nella montagna”, è costruito ad anfiteatro sui fianchi di una stretta valle. La sua posizione è superba,isolato da tutto. Quassù si comprende il significato di gompa, dimora della solitudine. Un silenzio sconfinato dove il vento modula la sua canzone e lo spirito può concentrarsi sul nulla. Al ritorno percorro a piedi la vecchia pista sul fondo della gola che si ricollega alla strada asfaltata in prossimità del monastero femminile di Julichen. L’eremo merita una visita per cogliere la differenza tra la vita dei monaci maschi e quella di un monastero femminile. Qui non c’è nulla di prezioso, ma solamente una tangibile miseria ed uno stato di abbandono piuttosto evidente. Il viaggio prosegue fra campi e frutteti di albicocche fino a giungere proprio sotto la fortezza del monastero di Wanla. L’occhio è attratto dalla rossa facciata del tempio, ma ancor più colpisce l’attenzione l’enorme torre diroccata che componeva la gigantesca fortezza. Raggiungo il gompa a piedi, con una breve ripida salita. Qua e là, un’umanità fatta soprattutto di donne e bambini, che condividono l’aria con la polvere e portano a spasso la loro vita con leggerezza e sorrisi.
Per arrivare a Lamayuru percorro la strada bassa, il paesaggio è meraviglioso; verdi salici, campi d’orzo maturo, rosse e gialle montagne. L’arrivo è indimenticabile, Lamayuru appare in tutto il suo splendore, magicamente arroccato sopra un’altura. Uno dei più vecchi monasteri del Ladakh è davanti a me, nella luce dorata del tramonto. Il grosso villaggio che si snoda ai suoi piedi sembra sostenerlo dandogli ulteriore forza. Nelle abitazioni del villaggio, tra le suppellettili appaiono foto del Dalai Lama, cartoline con le più venerate figure della fede buddista, piccole lampade votive alimentate a olio. Il misticismo che emana il villaggio sembra essere quasi fisico, forse a causa della sua storia, forse a causa del luogo dove sorge. La Puja del mattino è gremita di monaci di varie età. L’atmosfera è magica con suoni di tamburi e trombe tibetane.
I muri del monastero sono affrescati con scene che ispirano serenità e pace alternate a pitture raffiguranti sanguinosi draghi e demoni. La giornata è bella con un cielo cobalto. Percorro la strada alta per uscire da Lamayuru che offre dei paesaggi mozzafiato. Spettacolari sono le forme tormentate della Moonland, sedimenti di un antico lago trasformati in migliaia di gobbe dalla caratteristica colorazione giallastra. Si alzano nuvole di polvere, Lamayuru, il monastero della svastica, simbolo ritenuto di buon auspicio nell’Himalaya, controluce è già lontano. Tutto il tratto fino a Dha-Hanu è di una struggente bellezza. A 60 Km. Nord-Ovest di Khalsey e 24 Km. a Nord di Kargil, Dha-Hanu, protetta dall’isolamento naturale dovuto all’inaccessibilità di questa zona, conserva costumi e tradizioni. Popolazione conosciuta da Giotto Dainelli nel 1914, ora vi abitano meno di 200 anime chiamati Drog-Pa, dal tibetano “nomadi”, o Dardi, di misteriosa origine indo-europea. Qui continuano una vita autonoma ed indipendente in un’autarchia basata sui frutti e sui prodotti offerti dalla terra di queste valli relativamente basse di quota e dal clima favorevole.Un sentiero che sale lungo i fianchi di una montagna cammina in mezzo a terrazzamenti di piante di albicocco e porta al villaggio dei Drog-Pa. Visito il piccolo gompa accompagnato dagli sguardi sorridenti dei nomadi. Le donne, con la monumentale acconciatura di fiori nei capelli, mi offrono piccole albicocche dolcissime.
Questo villaggio, dai fiori dei prati a picco sull’Indo, fu duramente bombardato dai Pakistani nella guerra del 99. Un’ accampamento militare è perfettamente mimetizzato tra le nude rocce di una montagna mentre giù un torrente dalle acque azzurre e scintillanti confluisce in quelle grigie e impetuose dell’Indus River. Oltre Dha-Hanu non è permesso addentrarsi nelle valli e visitare villaggi come Garcon e Darchiuk. Sedotto dal paesaggio tento ugualmente di avvicinarmi fino al ponte controllato dai militari cercando con l’aiuto di Sharma una mediazione, niente, l’area è off-limit. Prima di rientrare al camp visito il piccolo villaggio di Baldhes, situato sulla sponda opposta del fiume. Si accede solamente a piedi attraversando un ponte ferrato che porta velocemente nel verde dei campi. Nei numerosi terrazzamenti incontro la simpatia e la serenità vestita nei contadini che mi rifocillano di frutta secca e di deliziose scene di vita spiccatamente bucolica. Un ponte sospeso nel vuoto e formato con vecchi tronchi di legno mi riconduce al camp. La notte è allietata da danze e canti con la popolazione locale, abbigliati con costumi di preziosi broccati variopinti. Danzano simultaneamente compiendo balzi e rotazioni, tanto da assomigliare a vortici di puro colore immersi in uno scenario fatto di cielo, montagne e bianche abitazioni segnate dal tempo. Sotto un cielo tempestato di stelle, l’Indo o Singge Khababs, visto da qui sembra, secondo il significato tibetano, il fiume che scorre dalla bocca del leone. Seguito da creste frastagliate dall’aspetto tagliente, proseguo a ritroso per raggiungere il gompa di Alchi, noto come il complesso dei templi più bello del Ladakh.
Pur avendo ormai fatto indigestione di iconografia buddista, Alchi, in posizione sublime su un’ansa del fiume, offre all’occhio mai sazio, meravigliosi Dukang pregevolmente affrescati, anche se alcuni sono in cattivo stato e altri malamente restaurati secondo lo stile locale. Il monastero è inglobato nell’omonimo villaggio,disturbato solamente dalla presenza massiccia di turisti e negozietti di souvenir conferendo al villaggio un’ aspetto poco romantico. Mi piace canticchiare a bassa voce una mitica canzone dei Jefferson Airplane battezzata White Rabbit,del 1967,che dice:quando la logica e la proporzione sono cadute fradice e morte, e il bianco cavaliere sta parlando alla rovescia e la regina rossa ha perso la sua testa ricorda cosa disse il ghiro: “nutri la tua testa”.
Al villaggio natale di Sharma, il mio autista, sono accolto con molta ospitalità e calore dalla sua numerosa famiglia. In una grande cucina-soggiorno si consuma un tè speziato accompagnato da biscotti, mandorle e albicocche secche il tutto in una cornice veramente deliziosa. Basgo, ultima tappa di oggi, affascina molto per la posizione e per i ruderi dell’antica fortezza. In questo monastero diroccato, tutto a picco sulla roccia, non ci sono più respiri, né parole,ma la solitudine totale. Un’architettura che si sfascia lentamente a ogni pioggia dove il vento ripulisce tutto. La bellezza di questo posto è incomparabile, come se reggesse il simbolo di una dottrina abbandonata, di una natura spenta e inodore. Per l’escursione di 2 giorni alla Nubra Valley porto il solo bagaglio necessario e lascio il resto a Leh. Anche oggi il cielo è di un azzurro che spezza il cuore. La strada verso il passo inizia subito a salire con una colonna di auto, jeep, autobus stracolmi e camion militari. I sorpassi sono difficili e pericolosi In poco più di 2 ore di salita arrivo sul Khardung-La che con i suoi 5606 m.è uno dei passi più alti del mondo aperti agli autoveicoli. Rimango sul passo per circa un’ora, visito il piccolo tempio imbiancato di neve e raggiungo la collinetta di ghiaccio dove sventolano le colorate bandierine di preghiera. Qui si può dialogare con Dio, tutto è grande. Per respirare la religione delle altezze non è necessario avere predisposizioni mistiche. Nei villaggi, lungo i sentieri e sulle cime, la religione è una presenza costante, il richiamo al Divino è ovunque. Lo ricordano i festoni delle preghiere affidate al vento su tutte le alture,gli stendardi e le insegne dorate dei monasteri, i chorten e i sassi votivi incisi ad ogni svolta del sentiero, gli innumerevoli monaci, la sacralità stessa delle montagne. E il cammino nella luce tersa dei 5606 m. del Khardung-La diventa anche un pellegrinaggio nel santuario della fede più antica del mondo: quella buddista. Al di là del passo, la strada scende attraverso numerosi villaggi, fra cui Khardung, ed il panorama si apre sulla catena del Saser Kangri e dei Karakorum orientali. Fumo nero e fiamme si alzano ai bordi della strada, sono i molti cantieri di manutenzione della strada stessa , con operai che lavorano in condizioni pietose, sia per il freddo che per il tipo di lavoro eseguito tutto a mano. Sono lavoratori che vengono dal Bihar e dalle regioni più povere, coperti con vecchi stracci hanno il viso annerito dal fumo e gli abiti neri di catrame. Sembra quasi un girone dell’inferno. Attraverso il posto di blocco di Nord Pollu, sito in un bel pianoro a 5000 m., e la vista spazia sulla valle del fiume Shayok. Seguo il suo corso fin dove la valle si divide in due rami immensi. Il letto del fiume è veramente imponente con larghe striscie di terreno coltivate a orzo, senape, cavoli di vari tipi e rape. La Nubra Valley è indubbiamente di una grande bel-lezza paesaggistica. La parte più spettacolare della valle si apre all’altezza del villaggio di Khalsar, dove si incontrano i fiumi Nubra e Shayok e su quest’ultimo tenendomi sulla sua sponda sinistra mi avvio verso Hunder. Decido di percorrere a piedi gli ultimi 7 km. su una pista che attraversa una zona di dune di sabbia bianca. Strano paesaggio desertico questo di Hunder, un curioso Sahara a 2000 m. con case in pietre tenute assieme da argilla, sterco e imbiancate di calce e miseri cespugli che offrono sostentamento alle colonie di capre selvatiche, il tutto disseminato nella valle con un piccolo gompa proprio accanto alla strada. Con il sole ancora alto raggiungo Deskit, unico grosso insediamento della regione. Il monastero è situato sulla cima di un costone roccioso sovrastante l’omonimo villaggio. Dalle sue terrazze l’occhio ha un senso di disorientamento tale da non riuscire a descrivere,con un linguaggio ricco di aggettivazioni, un ritratto di queste austere scene. Con il sole quasi al tramonto arrivo a Summor, che si trova esattamente dalla parte opposta della vallata, e, pernotto in un camp extralusso con uno scenario intorno , a dir poco, fantastico. Una passeggiata nelle prime ore del mattino, nel piccolo villaggio di Tiger, vicino al camp, permette di osservare le case tipiche e la vita ancora serena dei ladakhi. Non molto lontano si trova il monastero di Samsteling, relativamente moderno, dove visito tra l’altro la dimora riservata al Dalai Lama. Da Summor risalgo per 22 km. il corso del Nubra River e raggiungo Panamik con le sue sorgenti termali. Il posto non è malvagio e approfitto per un tonificante bagno termale in compagnia di due giovani ladakhi. Oltre Panamik la strada è interdetta agli stranieri. Sulla via di ritorno, con una breve camminata a piedi, un sentiero conduce in salita ad un suggestivo laghetto ritenuto sacro. Le sorprese non mancano mai.In serata rientro a Leh,in mezzo ad una moltitudine di uomini, donne e bambini coloratissimi. Al mattino, con molta tristezza saluto la piccola Leh e mi avvio verso il sud su una strada che corre lungo il fiume, pochissimo trafficata. A Mahe, un ponte scavalca l’Indo e segna l’inizio dello sterrato. Dal villaggio di Sumdo salgo al passo di Namshang-La, 4500 m., qui Sharma esegue un giro rituale con la sua jeep intorno alle numerose bandierine che segnano il passo. Continuo scendendo verso uno straordinario plateau sorvegliato da marmotte timorose, qui incontro il Thadsang Karu Lake,un piccolo laghetto alpino dalle acque azzurrissime.
Lo sterrato termina al piccolo e povero villaggio di Korzok, nobilitato dalle limpide acque dello Tsomoriri incastonato in una cornice ininterrotta di vette innevate. Tutt’intorno è un fascino senza fine con un’umanità vestita di cielo e i km fatti per arrivare fin qui vengono ripagati. Percorro, con un breve trek, un sentiero che parte dietro il gompa e conduce ad una sella a circa 5000 m. Da qui si gode di una vista grandiosa su tutta la regione e si può ammirare il lago in tutta la sua maestosità. L’altitudine e l’aria fresca si fanno sentire anche al camp, situato alle spalle del villaggio in un ambiente di natura e silenzio.
Quando arriva il buio si vede ordinarsi in cielo le stelle e la falce della luna che galleggia come una nave nell’azzurro. All’ alba assisto alla Puja del mattino officiata da un solitario monaco che salmodia e suona vari strumenti da solo, poi percorro a piedi un sentiero che inizia dal camp e porta in alto a circa 4700 di quota. Qui vivono i nomadi nelle loro tende fatte di pelle di yak conducendo una vita lontana dalle delizie del mondo. La camminata non è affatto impegnativa e si arriva fino a una vasta spianata erbosa disseminata di tende. Si saltella sui ciuffi d’erba e attraverso più volte il torrente. Scene molto notevoli. Rientro nel pomeriggio a Korzok per assistere alla Puja delle 16,00, molto animata ed etnica. A fine funzione mi aggrego ai numerosi monaci che raggiungono uno chorten imbandierato dalla quale si ha un bel colpo d’occhio a 360°. L’incanto e la magia di questo luogo sono completi. Oggi è il 26 luglio e fra non molto lascio questo angolo di mondo per entrare nello stato dell’Himachal; una cosa certamente porto con me ed è il dolce e spirituale sorriso del Dalai Lama. Via Sumdo arrivo al Polo Kongka-La, 4920 m., qui altra kora con la jeep di Sharma. Piacevole e varia è la pista che attraversa pianure ricche di marmotte, mi trovo nella Rupsu-Valley che ospita il lago salato Tso-Kar in un ambiente metafisico. Proseguo su una strada tortuosa, quasi fosse tracciata a capriccio, verso il cielo, procedendo con prudenza per i numerosi tornanti e ogni volta che si incrocia un grosso mezzo bisogna accostare e procedere piano. Sembra di viaggiare e inoltrarsi in valli popolate da elfi che vivono dietro le cascate che scendono rumorose da ripidi e verdi pendii. Dopo una serie di valichi intorno a 5000 m. sono al camp di Sarchu a 4253 m. in un ambiente alpino, pulito e incontaminato. Dopo un caldo tè scendo a piedi nel bel canyon del fiume, a pochi passi dal camp. Proseguendo per Darcha lo scenario è impreziosito da una natura che prende atteggiamenti d’architettura con valloni e dirupi, cascate e canaloni, fiumi e gole,forre balze e montagne,vette innevate,ghiacciai e verdi prati coperti di fiori, una natura che custodisce gelosamente ancora i suoi segreti, una vera gioia per gli occhi e l’anima.“ Il Rohtang “ dice Tucci “ è il primo saluto dell’Himalaya: è l’invito alle sue solitudini ed ai suoi silenzi; e ci prende il fascino ineffabile di queste terre in cui pare quasi che più intensa e profonda sia la vita dello spirito”. Sul Rohtang-La, 3980 m., un breve trek porta alla cima della collina delle bandierine. Qui si avverte un senso di profonda magia, una sorta di linguaggio segreto. La spiritualità del vento e delle montagne dalle altezze inconcepibili, dimora dell’eterno Io, che non è né corpo , né spirito. Valicato il passo si scende su una strada molto trafficata e piena di curve. A 30 Km. da Manali la strada e bloccata per una frana con una fila interminabile di mezzi. Dopo 3 ore di lavoro con la ruspa la strada viene riaperta al traffico; è andata bene! Arrivo a Manali al buio; questa ridente cittadina turistica posta a 2000 m. nella Kullu Valley è circondata da verdi boschi di conifere sotto l’urlo incessante del fiume. L’apertura della strada Manali-Leh ha sconvolto la vita del villaggio che si è velocemente trasformato nel corso degli anni 80. Il risveglio a Manali ha qualcosa di irreale, si avverte quel senso di levitazione che si esprime da alberi, rocce, case, nel momento in cui il pulviscolo atmosferico, steso intorno a loro, è investito dal primo raggio del sole. Il viaggio continua attraversando alcuni simpatici villaggi immersi nel verde. Il crollo di un ponte nelle acque limacciose di un fiume impazzito, costringe l’autista a districarsi in stradine secondarie, offrendo scene molto belle e colorate dell’India rurale, serena e semplice. Adagiata sulle acque del fiume Beas, l’animata Mandi, famosa per i suoi numerosi templi, offre un po’ di ristoro ai tanti km che mi separano dalla capitale. Il suo nome significa “mercato”, poiché è posta ad un incrocio fra antiche piste carovaniere. Ormai si è in pianura e il caldo si fa sentire. Con la luce del giorno sono a Chandigarh, decisamente poco indiana. Concepita negli anni 50 e 60 su modelli di funzionalità tipicamente occidentali, la città ha poco fascino. Qui terminano i miei vagabondaggi sognanti e sono già nel caos più sfrenato. Di fronte l’Hotel si vive e si dorme per strada. A circa 200 km. da Delhi inizia una sorta di autostrada, nonostante le onnipresenti vacche sacre si viaggia abbastanza veloci e nelle prime ore del pomeriggio arrivo a Delhi. Eccomi la Delhi vestita di cenci e di sete, di percalli e di velluti, in una fiumana incessante di colori che è un vero tripudio visivo: giallo zolfo, giallo ocra, rosso, carminio, porpora, verde biacca, verde salice, azzurro, turchino. Dopo cena vado a dormire con avidità, come se dovessi raccogliere in me tutto il sonno dell’universo. All’aeroporto di Roma sono su altre coordinate geografiche, certamente non più antichi broccati ma una moltitudine di splendide ragazze aggraziate nelle loro fattezze in deliziosi succinti abiti estivi, alcune magrissime, con gli occhi spiritati e il sorriso smagliante, il corpo atteggiato in maniera violenta e burattinesca,con le gambe protese in fuori, e, nell’espressione del volto, qualche cosa di puerile e di isterico e tutto questo per portare a spasso fiammanti pensieri d’amore.
Testo: Francesco Bellisario
Foto: Paolo Latella