Skip to content Skip to sidebar Skip to footer

Le monache della meditazione estrema

Sono novemila, vivono appartate in cubicoli, a quattromila metri di altezza, accanto al grande monastero buddhista di Yarchen. Guardate a vista dall’esercito cinese, hanno trasformato una valle inospitale in una land art. Metafisica.
 

Come lasciati rotolare da una mano invisibile, grande come il cielo che li sovrasta. Cubetti, piccoli dadi. Sparsi intorno al monastero di Yarchen, trasformano il paesaggio in involontaria land art, rendono metafisico un luogo che non pare fatto per essere abitato. Non in inverno, almeno. Le propaggini occidentali del Sichuan – la provincia cinese che più a valle pulsa delle prepotenti ambizioni del capoluogo Chengdu – sono i lembi orientali del Tibet. I due mondi si sovrappongono, ma a Yarchen prevale il Tibet. Questo è il Kham, fino all’occupazione cinese (o liberazione, a seconda del versante da cui la si guarda) parte integrante del territorio governato dal Dalai Lama. Poi vennero l’esercito di Mao Zedong (1951), uno status semiautonomo nella Repubblica Popolare, la fuga del monaco-sovrano (1959), la normalizzazione definitiva. Il Tibet storico è stato smembrato fra province diverse: il Tibet attuale, il Qinghai, più pezzi del Gansu, del Sichuan e dello Yunnan. Divide et impera. Ha funzionato.

Ma a Yarchen è il vecchio Tibet che pare sopravvivere. Separata da un monastero maschile con circa 3 mila lama e novizi, ci vive una vastissima comunità di religiose. Sono circa 9 mila monache devote agli insegnamenti di Achuk Rinpoche, nato nel 1927, maestro della setta dei Berretti Rossi (Nyingmapa), considerato reincarnazione di Longsal Nyingpo (XVII secolo), a sua volta reincarnazione del Buddha Amitabha. in condizioni ambientali estreme, a 4 mila metri d’altitudine, le monache trascorrono cento giorni di meditazione nei cubicoli, dall’alba al tramonto. Le loro celle stanno intorno al monastero, fondato nel 1985 in una fase di relativa liberalizzazione della religione e della cultura tibetane. Oggetti di recupero, stoffa, ombrelli, cartoni, pezzi di legno, pani di sterco secco da bruciare nelle stufette, costruiscono i rifugi posati sulla montagna. Materiali impermanenti, quasi che con la loro precarietà volessero ricordare che la vita è vana e tutto è illusione. Ogni celletta è piccolo universo di preghiere che si chiude in una scatola, con l’anima.

Le zone tibetane dello sichuan sono quelle che nelle settimane scorse hanno assistito al riacutizzarsi delle incomprensioni con i cinesi. Nella contea di Aba, di radicati sentimenti irredentisti, a metà marzo un monaco della lamaseria di Kirti, il ventunenne Phuntsog, si è dato fuoco. Secondo quanto riferito da un confratello attraverso la International Campaign for Tibet, il gesto era “un modo per mostrare la contrarietà del popolo tibetano”. Neanche un mese dopo il monastero è stato circondato dalle forze di sicurezza cinesi, con un’escalation di tensione che ha spinto il dipartimento di Stato americano a invitare Pechino alla moderazione. Un appello rituale ritualmente respinto dalle autorità cinesi. Tuttavia, anche quando non vogliono, Cina e tibetani attraversano destini paralleli. Per chi governa la seconda economia del mondo e una diaspora sempre più distante dalla terra d’origine, un Tibet spesso mai conosciuto, è una fase di cambiamento.

La coincidenza di tempi e di temi agita un po’ l’asse a tre Pechino- Lhasa-Dharamsala (sede del cosiddetto governo in esilio). Succede, infatti, che la diaspora tibetana in marzo abbia dovuto fare i conti con l’annuncio del Dalai Lama di voler abbandonare ogni suo ruolo politico. Spazio, dunque, a un nuovo primo ministro, stavolta eletto in modo più democratico di quanto avvenne dieci anni fa con Samdhong Rinpoche, monaco e – appunto – premier uscente. L’ultimatum del Dalai Lama, 75 anni, era semplicemente la versione più drastica di desideri noti, già espressi in passato, anche se continuerà naturalmente a essere la massima autorità spirituale dei tibetani e non metterà fine alla sua missione di testimonianza.

Pechino si prepara a sua volta a un passaggio cruciale, che se è importante per le sorti del mondo lo è, naturalmente, per quelle del Tibet e dei tibetani. Nell’autunno del 2012, infatti, il Partito comunista è chiamato al Congresso che dovrà rinnovare i suoi vertici e, di conseguenza, la leadership della seconda economia globale. La sceneggiatura sembra già scritta ma, al netto di correzioni o stravolgimenti in corso d’opera, gli interpreti di molti ruoli non sono stati scelti. La definizione della nuova gerarchia porterà con sé mutamenti negli organigrammi della nazione mentre i mesi di preparazione mostrano già i segni di una transizione laboriosa. Il Tibet c’entra? C’entra. Insieme con il Xinjiang musulmano e turcofono, la regione è vista come esposta ai rischi del separatismo. Ed è un teatro sul quale possono riflettersi opposte strategie, approcci diversi, fermo restando il dogma assoluto condiviso da tutta la leadership comunista:il Tibet è Cina, e tale rimarrà. 

La Cina ha investito miliardi di yuan in Tibet per elevarne le condizioni di vita, senza attenuare la pressione e il controllo poliziesco sulla regione. In marzo, in occasione sia dell’anniversario dell’insurrezione del 1959 sia dei moti violenti del 2008, il Tibet è stato chiuso ai visitatori stranieri. Nello scontro fra le opposte propagande, il campo tibetano ha segnato un piccolo punto quando le autorità indiane hanno liberato il Karmapa Lama, terza carica del buddhismo lamaista fuggito dalla Cina nel 2000 e pupillo del Dalai Lama, dal sospetto di essere una spia di Pechino. I cinesi puntano sul loro uomo, il Panchen Lama scelto dal Partito nel 1995 (quello indicato bambino dagli emissari del Dalai Lama come il vero Panchen Lama è da allora sparito, ndr). È un delegato della Conferenza consultiva, una sorta di parlamento secondario nell’ordinamento della Repubblica Popolare, e quest’anno ha parlato in modo esplicitamente politico di Tibet.

«I tibetani godono adesso di libertà religiosa e stanno molto meglio. La liberazione pacifica del Tibet ha reso il popolo vero padrone del Tibet». Niente di nuovo, da parte di Pechino. Intanto, nei loro cubicoli sulle alture brulle, le monache di Yarchen cercano la loro verità. E forse la sanno già.

Testo di Marco Del Corona – Foto di Boris Joseph

Leave a Comment