La Mongolia è una calamita dell’anima, se rende l’idea. E’ una delle terre più genuine, autentiche, entusiasmanti del mondo. Chi la visita, la ama per sempre.
Ti abbraccia, riempie di spazio, di cielo, di vento, restituisce alla profondità della vita, alla spiritualità che non pensavi di avere, guarisce dalla solitudine, dalla timidezza, autorizza a commuoversi. “Il meno che si possa dire della Mongolia è che è un Paese di straordinaria originalità” testimoniava Alberto Moravia in uno dei suoi reportage.L’orientalista Ilaria Maria Sala nel suo “Il dio dell’Asia” garantisce: “La Mongolia è uno dei Paesi più belli che abbia mai visitato, forse per gli spazi vastissimi che presenta, forse per il modo in cui offre qualcosa di diverso eppure familiare, al tempo stesso. Viaggiare qui è scomodo e difficile, e anche questo, in un’era di viaggi insignificanti, è un vantaggio”. Qui siamo in una repubblica di dimensioni immani, nel baricentro esatto del continente più ricco di storia e civiltà, innestato fra due nazioni invadenti e fondamentali per le sorti del pianeta, Russia e Cina. Proprio la Mongolia generò l’impero più vasto di sempre, guidato da Gengis Khan, un condottiero eccezionale per intraprendenza e tolleranza, riscattato dagli storici ed eletto “uomo del millennio” dal Washington Post.
La motivazione: “E’ stato l’uomo che ha permesso di collegare l’Est e l’Ovest consentendo la creazione della civiltà moderna”. Siamo nel corridoio dove le culture del mondo hanno incrociato arte, filosofia, religioni, mercati, favoriti proprio da quella che gli storici hanno battezzato “pax mongolica”, un bel sogno medievale tramontato con la decomposizione dell’impero dei khan. Una terra così importante che, nonostante le umiliazioni successive, ha mantenuto la sua purezza nomade, una cultura mistica e sciamanica: un vero miracolo in un pianeta alla deriva culturale, sociale e ambientale. Ma anche la Mongolia, serenamente immobilizzata per secoli, sta vivendo una svolta epocale.
Il suo futuro passa dalla “collina turchese”, Oyu Tolgoi, in pieno deserto del Gobi. Lì sotto dieci anni fa sono state scoperte le miniere più ricche d’oro e di rame del mondo e ora, dal 2013, comincerà il vero sfruttamento. C’è chi la legge come una “opportunità”, chi come un “disastro”, sociale e ambientale. Per alimentare le miniere si stanno prosciugando le già esigue riserve idriche del Paese e il rischio di trasformare lentamente (ma nemmeno tanto) i “nomadi guerrieri” in operai e minatori è qualcosa di più che un timore. A questo si aggiunge l’annuncio dell’imminente apertura della prima centrale nucleare, che potrebbe sostituire gli arcaici e inquinanti impianti a carbone che sbuffano alla periferia della capitale. Nel corso del 2012 numerose manifestazioni pacifiche (ma arrabbiate) promosse da intellettuali, ambientalisti, studenti, nomadi e cittadini semplici, sono state improvvisate nella piazza principale di Ulaanbaatar. C’è più paura che preoccupazione per i possibili sconvolgimenti dell’ambiente e dello stile di vita tradizionale, ma anche per le eccessive concessioni alle grandi aziende straniere per lo sfruttamento minerario.
Anche in Italia la metamorfosi della Mongolia viene seguita con attenzione sempre maggiore. I rapporti si stanno saldando e la dimostrazione è l’apertura di due consolati onorari – a Milano e Prato – e, nell’aprile 2012, finalmente dell’ambasciata mongola a Roma. La Mongolia ha invece ancora il potere di sorprendere, disorientare, inquietare, affascinare, attrarre. Ulaanbaatar, che ormai ospita metà dell’intera popolazione mongola, sta cambiando a vista d’occhio, diventa sempre più moderna, isterica, per qualcuno addirittura pericolosa. Insomma, assomiglia a una città occidentale. Ma questa giovane capitale ha tanta voglia di emanciparsi, dimenticandosi di essere un’oasi circondata per migliaia di chilometri in ogni direzione dal meraviglioso passato remoto di un territorio di bellezza assoluta e di tradizioni immacolate. Che qualcuno definisce “nulla”. I mongoli chiamano hodoo la campagna, tutto quello che non è la capitale.
Nel giugno 2009 la Nasa ha avviato uno studio per capire come la popolazione nomade mongola riesca a sopravvivere in condizioni tanto estreme e carpirne i segreti per le missioni spaziali. E poi c’è la nuova minaccia della Cina: ne ha paura l’Europa a diecimila chilometri di distanza, figuriamoci la Mongolia che le è schiacciata addosso e che vanta, è il caso di dirlo, un’avversione storica per la Terra di mezzo, sottomessa ai tempi dei Khan e poi spietata dominatrice per sette secoli. I mongoli non usano biciclette perché ci vanno i cinesi; non comprano ortaggi, economici e gustosi, provenienti da oltre Gobi e si ostinano a preferire i prodotti locali, carissimi e scipiti, come possono essere scipiti dei pomodori che crescono sottozero. Il del, il costume tradizionale della Mongolia, prevede maniche molto lunghe, una trentina di centimetri oltre il polso. “Ce le avevano imposte i cinesi all’inizio del Novecento per umiliarci, mi ha rivelato senza vergogna il nomade Gighee, perché con quelle appendici grottesche al posto delle mani ci volevano far sembrare come degli animali. Anche dopo che abbiamo cacciato i cinesi, abbiamo deciso di mantenere le maniche lunghe ai nostri cappotti per non dimenticare. E anche per ripararci le mani del freddo”. La Mongolia vera, quella che gli stessi cinesi hanno battezzato sdegnosamente “esterna”, sembra essersi congelata da millenni. I guerrieri che conquistarono mezzo pianeta si sono dati una calmata e oggi sono nomadi gentili e orgogliosi che vivono nelle loro tende bianche come ai tempi di Gengis Khan seguendo i ritmi dolci e feroci della natura più sublime. Ospitalità, generosità, tolleranza: ecco quello che troverete nelle case e nelle gher. Papa Benedetto XVI ha definito la Mongolia “un esempio di tolleranza civile e religiosa”.
Federico Pistone (Tratto da una prefazione alla guida della Mongolia)
Foto di Elvira Crea